Un errore che può diventare opportunità: la sedia della riflessione

Da tempo immemore esiste e resiste una modalità di “correzione” dei difetti dei bambini chiamata “la sedia della riflessione”. Solitamente viene mal interpretata da chi la adopera. Il termine, sicuramente aulico per la comprensione efficace da parte di un bambino, richiamerebbe però un momento di stop, di fermata, per ritrovare la calma e comprendere la propria azione, il proprio sbaglio, le emozioni vissute e scatenate, per poi da lì ripartire. L’interpretazione che si è susseguita negli anni è del tutto errata.

Situazione tipica: bambino di 3 anni che gioca, altro bimbo che si avvicina, il primo che lo aggredisce per paura che si avvicini al suo lavoro prima ancora che il secondo faccia qualcosa. Il primo bambino verrà richiamato e se persiste verrà allontanato e messo nella sedia o nell’angolo in “punizione” per riflettere su ciò che ha fatto, da SOLO.
Già il termine “punizione” lo trovo assordante oltre che inutile, poi il fatto che il bambino venga lasciato solo con le sue emozioni del momento, a dover gestire tutto lo trovo aberrante. Il bambino dovrebbe essere talmente capace da

  • autoconsolarsi,
  • dare un nome alle proprie emozioni distinguendo quelle provate per il compagno e quelle provate per l’adulto,
  • non sentirsi incapace,
  • calmarsi,
  • dirsi che ha sbagliato
  • trovare una soluzione possibile per la prossima volta.

Tutto questo dentro di sè, senza poter esprimere nulla.

Questa è l’interpretazione sbagliata di quella che potrebbe essere invece una possibilità di confronto e di crescita. Nella situazione sopracitata, se l’intervento fosse: ti chiamo, ti chiedo di venire con me a parlare di quello che sta accadendo, mi pongo di fronte a te, ti guardo negli occhi e ti invito a sederti per parlare insieme e confrontarci, ti racconto quello che vedo, ti racconto le reazioni tue e degli altri, ti chiedo come ti senti e quale potrebbe essere la soluzione e infine ti abbraccio e ti dico che ti voglio bene e possiamo tornare a giocare, bè mi sembra tutta un’altra cosa, eppure potrebbe chiamarsi anche questo sedia della riflessione. Oppure potremmo definirla : la chiacchierata comprensiva.

Questo metterebbe già l’adulto in una prospettiva diversa: dovrebbe mettersi in gioco, rimanere con il bambino, guardarlo negli occhi, accogliere le sue reazioni, tentare di raccontare ciò che vede per una migliore comprensione del bandolo emozionale del bambino. Egli si sentirebbe comunque in errore, ma anche accolto, aiutato, compreso, amato. E questo farebbe una gran differenza per la sua autostima, il suo stato emotivo, la sua capacità di comprendere le situazioni e di sapersi comportare in modo socialmente accettabile e la modalità di affrontare i suoi errori e quelli degli altri.

Quando il bambino compie i primi passi, l’adulto accogliente e comprensivo lo incita, lo incoraggia, mai lo incolpa, nemmeno se cade. Ma quando si tratta della relazione con gli altri, di una parte più emotiva, ecco che l’atteggiamento cambia. Il bambino dovrebbe essere in grado di litigare “bene” fin da subito, senza un’esperienza che glielo insegni. Ma per litigare bene, così come per camminare senza cadere, serve esercizio e pratica, tanta “riflessione” dopo. E come per camminare abbiamo le gambe che la natura ci ha dato e degli appigli che possono aiutarci, per litigare bene ci devono dare degli strumenti che ci aiutino.

Immaginiamo di intraprendere un nuovo mestiere. Ci portano nel posto di lavoro e ci dicono “fallo!”. Sicuramente sbaglieremmo qualcosa e a quel punto non avremmo nessuno con cui parlare, confrontarci, chiedere consiglio, ma dovremmo sederci in un angolo e aspettare le risposte dentro di noi. Vi sembra accettabile? Vi sembra che vi sia data la giusta possibilità?

L’adulto rappresenta l’ambiente psichico del bambino. Se viene a mancare questo nel momento del bisogno, come potrà il bambino sentirsi amato e costruire così un’immagine di sè positiva?

Emilia Prisco
Giornalista