Educazione sessuale e disabilità.

“La vera educazione sessuale consiste nell’aiutare l’altro a raggiungere la propria maturità affettiva, porta una persona a crescere diventando più attenta alle esigenze proprie e altrui, si occupa delle emozioni, delle fantasie, dell’immaginario ad esse connesso, dei vissuti affettivi e relazionali reattivi al rapporto con altri significativi.” (Simonelli C.)
In questo articolo vorrei far luce sull’affettività e sulla sessualità di chi, comunemente, è definito “disabile”. Come se fosse possibile etichettare una persona, riducendola ad una diversità, diversità nell’accezione negativa del termine, diversità silenziosamente condannata, nonché subdolamente evidenziata e/o nascosta a proprio piacimento.
Si tratta di un tema delicato, complesso e, soprattutto, evitato dai molti, sarebbe, a mio avviso, utile e interessante approfondire l’argomento perché potrebbe essere un inizio per dare risposte a chi ne denuncia il bisogno, a chi chiede il riconoscimento di una identità sessuale e la naturale espressione della stessa.
Iniziare anche solo a parlarne potrebbe ridare centralità ai bisogni, ai vissuti emotivi e alla corporeità di chi viene etichettato e ghettizzato, ai cosiddetti “disabili”.
Troppo spesso i disabili, purtroppo, sono costretti a reprimere i naturali comportamenti sessuali, in nome di valori che non appartengono alla propria unicità, ma che nascono nella psiche e nel corpo di un altro. Spesso di chi se ne prende cura. L’intervento in questi casi non può, e non deve, ergere le fondamenta né su un puro tecnicismo né tantomeno esclusivamente sul buon senso e sulla sensibilità degli addetti ai lavori; le ipotesi di cambiamento dovrebbero fare riferimento a linee guida utili, rispettando la persona e il suo equilibrio emotivo, comportamentale e cognitivo raggiunto.
Le richieste di consulenza muovono, spesso, dalla triste necessità di contenere atteggiamenti problematici, in quanto disturbanti o pericolosi, situazioni, dunque, percepite ed interpretate come problemi sociali. In certi casi operare per una limitazione della libertà e autonomia del disabile potrebbe essere indiscutibile. Potrebbe.
Sarebbe invece auspicabile, in una prospettiva educativa, in caso di disabilità, guidare la persona al raggiungimento di una “massima autonomia possibile”, alla ricerca di “spazi di autodeterminazione” per poter esprimere serenamente la propria unicità ed irripetibilità.

Tale concetto, in campo sessuologico, purtroppo non sempre viene attuato in quanto realmente di difficile compimento.
Quando si parla di sessualità c’è un cambio di rotta, l’obiettivo, più immediato e maggiormente risolutivo, sembra essere l’effettuazione di una “minima autonomia possibile”, dove non c’è autodeterminazione e neppure spazio, dove non c’è respiro, non c’è libertà ma solo negazione dell’altrui identità sessuale.
Si prediligono, così, tendenzialmente, sul piano metodologico, interventi repressivi volti a contenere le naturali spinte sessuali. L’intervento educativo e di sostegno, in alcuni casi, è, dunque, soppiantato da dolore esistenziale, castigo arbitrario e mortificazione.

Vorrei denunciare lo stato delle cose, una sorta di denuncia sociale, un ammonimento a quanti, senza accorgersene, dimenticano che il disabile è una persona come tutte le

altre, con un proprio sistema valoriale. Chi dimentica questo concetto commette un’ingiustizia verso chi chiede di amare e di avere un genuino scambio di piacere, di carezze ed effusioni, di chi chiede, null’altro, che di vivere.
“Si tratta di una crudeltà che le persone handicappate di sicuro non meritano. Non esistono, infatti, ragioni, valide per giustificare questo tipo di atteggiamento, se non quelle che fanno capo alla nostra personale difficoltà e paura di affrontare l’argomento in termini educativi.” (Veglia F.).
Alcune realtà progettuali, e alcuni interventi clinici, in aree diverse dalla sessualità, si basano su programmi di apprendimento difficili senza tener conto dei reali limiti biologici dei destinatari degli interventi, si chiede al disabile, di lavorare per obiettivi, talvolta irrealizzabili, quasi magici, e di affrontare percorsi frustranti e tortuosi, umilianti. Ancora una volta si denota l’ingenua mancanza di rispetto per la persona e per i suoi limiti.
Questo, però, tende a non essere applicato in fatto di sessualità, “terreno abitualmente sano”, sano perché la vita sessuale ed affettiva di chi ha una disabilità psichica è regolata da centri del SNC che, in linea di massima, rimangono inalterati. È un terreno che, se ben lavorato, potrebbe dare buoni frutti e , invece, rimane un terreno, troppe volte, con troppa leggerezza e non curanza, incolto ed abbandonato nel migliore dei casi, perché in altri è, sì coltivato, ma con regole inappropriate, contro natura.
É necessaria una mera riumanizzazione di molte logiche educative e di sostegno. Dovremmo partire col chiederci: “In generale, qual è il fine della sessualità umana?” Purtroppo è senso comune pensare che ci siano due “territori” per dare una risposta al quesito, uno cattolico ed uno laico, ognuno combatte metaforicamente per imporre la propria posizione, la propria “verità rivelata”, la procreazione per la sopravvivenza della specie nel primo caso, e la qualità della relazione per la sopravvivenza dell’individuo nel secondo. In quest’ordine di idee, la sessualità dei disabili è terreno di nessuno, “terreno invisibile”. Sembra quasi che il disabile non abbai spazio sul nostro pianeta, sembra che sia stato ghettizzato in un pianeta a parte, un non luogo dove si raggruppano arbitrariamente persone che non sono abili, che non hanno speranze perché non autonomi, sono di fatto persone a cui viene negata, in ogni area di funzionamento, soprattutto quella sessuale, la libertà e la facoltà di scelta.
È triste a dirsi ma, in quest’ordine di idee, i disabili appartengono ad un pianeta dove il territorio della sessualità è scotomizzato; è come se il disabile avesse un’identità che poggia su una base biologica “difettosa” e su negazioni sociali.
I disabili concretamente vivono in un clima di impedimenti e di divieti. Il più delle volte, non possono accedere alla genitorialità, ad un lavoro che soddisfi le reali propensioni, passioni ed inclinazioni, a ruoli sociali di prestigio e a rapporti sessuali completi o quantomeno ad una vita sessuale attiva e soddisfacente.
“Eppure, nel 1993 l’Assemblea generale dell’ONU ha pubblicato un documento nel quale veniva riconosciuto a tutti i portatori di handicap, sia fisico che mentale, il diritto di fare esperienza della propria sessualità, di viverla all’interno di una relazione, di avere dei figli, di essere genitori, di essere sostenuti nell’educazione della prole da tutti i servizi che la società prevede per i normodotati, ed anche non ultimo, il diritto a ricevere un’educazione sessuale” (Veglia F.).

Tutto questo è di difficile attuazione, si continua così ad andare avanti nel non riconoscimento dei diritti di chi non è nelle condizioni di difendere le proprie posizioni, vorrebbero farlo ma in qualche modo non possono, e quando ci riescono, andando contro i singoli e contro il sistema, vengono incoronati come eroi, come eccezioni. E tutti gli altri? Tutti gli altri soppressi e schiacciati dai macigni delle stereotipie culturali e delle semplificazioni popolari.
Tendono così, a volte, ad essere aggressivi per segnalare il bisogno di una relazione affettiva, e si mostrano esibizionisti per comunicare il bisogno di identità sessuale.
É importante promuovere la vita sessuale dei disabili, rendendo chiara la possibilità, spesso negata, a chi vive nella disabilità, di sperimentare un soddisfacimento sessuale che, il più delle volte viene ridotto a repressione e frustrazione esistenziale.
Quanto appena detto non deve apparire come la voglia di coltivare sentimenti di onnipotenza nella non accettazione di dati di realtà, è chiaro che accompagnare e supportare un disabile nella sua crescita comporta anche l’onestà e la chiarezza nel dire le cose come stanno. Nel non alimentare illusioni e false speranze. Nell’aiutare l’altro ad includere nell’immagine di se stessi le proprie limitazioni.
È necessario, quasi vitale, però accettare, in primis, se stessi. Chi opera o vuole operare in un ambito tanto delicato, per non creare altra sofferenza, dovrebbe anzitutto avere un buon rapporto con il vissuto personale, dovrebbe aver percorso un cammino di consapevolezza e di conoscenza interiore per non incappare in ingenuità e atteggiamenti penosi ed irrispettosi. È una questione di atteggiamento nei confronti del problema. È auspicabile, nell’incontro un ampliamento della propria visione del mondo.
Un atteggiamento non riduttivo, ma ampio, di chi opera con i disabili, specialmente per quanto concerne la sfera sessuale, è un terreno sicuro e rassicurante per educare la persona alla sessualità.
Non sto dicendo di insegnare a fare sesso o a gestire pratiche sessuali fini a se stesse, mi riferisco ad una sessualità intesa nella sua multidimensionalità. Spesso sono proprio i cosiddetti “normodotati”, a pronunciarsi in termini riduttivi, riducendo la sessualità all’incontro fra due corpi, due corpi “belli”.
Un’adeguata consapevolezza di se stessi, quando ci si accinge a prendersi cura del disabile, è prerogativa imprescindibile per la realizzazione di una relazione basata sull’autenticità dialogica, come direbbe Martin Buber per la definizione di una relazione “Io–Tu”, in cui la persona autentica prende coscienza di sé come soggettività.
La dialogicità nella sessualità è una dimensione intrinsecamente vera ed ineluttabile, un bene da riconoscere e da impreziosire, è l’elemento fondante dell’amore; guardare alla sessualità come amore è ancor più utile con i disabili, far crescere l’altro nell’amore è un modo per mostrare quante possibilità e quante diverse modalità di amarsi esistono nel pieno rispetto della propria unicità.
In una logica educativa, inoltre – dove educare significa etimologicamente tirare fuori, aiutare cioè ciascuno a diventare se stesso, a recuperare in senso profondo la sua identità, a tirar fuori i valori connessi, inevitabilmente alle personali potenzialità, e alla magia della irripetibilità ed incomparabilità soggettiva – è necessario, o quantomeno auspicabile, una sospensione del giudizio per non imporre, anche se

inconsapevolmente, i propri valori e per evitare di rapportarsi sulla base di pregiudizi e giudizi che inevitabilmente trapelano e feriscono.
Accettare l’altro nelle sue fattezze non è compito facile, in talune situazioni.
Può essere pesante e faticoso. Si tratta di “cum–prendere” la persona, di accogliere senza essere giudicanti, senza percepirsi migliori in quanto portatori di “ornamenti” vincenti o di una più fine intelligenza.
Spesso lo si fa goffamente. Con ipocrisia. Si comunica pertanto commiserazione, l’altro percepisce e, nella percezione, si immagina misero e perdente. È ancora ferire.

Dott.ssa Rosetta Cappelluccio
Psicoterapeuta cognitivo-comportamentale
Docente e supervisore Istituto A.T Beck Roma e Caserta
Conduttrice gruppi DBT adulti e adolescenti
Consulente tecnico d’ufficio per trauma neglect e abuso
Responsabile ambulatorio psicopatologia ospedale Buonconsiglio Fatebenefratelli Napoli