Rudera, Giuseppe Pirozzi fa risplendere la scultura italiana

La mostra Rudera di Giuseppe Pirozzi, allestita a Castel Sant’Elmo, esposizione che ho visitato con grande interesse e attenzione, rappresenta un momento di eccellenza per la scultura italiana, racconta in filigrana una traiettoria espressiva di grande valore per la storia dell’arte e per tutte le nuove generazioni di artisti che si affacciano alla materia plastica. (Confesso di aver tradito il Maestro, perché gli avevo promesso, in una telefonata che mi ha riempito di gioia, di passarlo a prendere, ma il suo carisma e la mia ammirazione per lui non mi avrebbero fatto godere appieno lo spettacolo, sulla seconda promessa non verrò meno, quella di portare la mostra a Milano). Il piglio curatoriale di Enrico Crispolti si sente e forte.

La mostra si articola in tre spazi diversi del Castel Sant’Elmo: nel Museo è presentata una selezione di opere in bronzo che testimonia le fasi principali del percorso di ricerca artistica dello scultore, dagli esordi degli anni Cinquanta a oggi. La piccola chiesa di Sant’Erasmo – che per la prima volta si aggiunge agli spazi espositivi – accoglie venticinque sculture in terracotta, in gran parte inedite, realizzate dall’artista nell’ultimo decennio. Infine, nella sagrestia della chiesa si trova l’istallazione Preghiere, costituita da cento formelle in terracotta ingobbiata, plasmate con continuità rituale dallo scultore negli ultimi quattro anni e allestite a parete come opera unica.

La scultura è la grande dimenticata del dibattito sull’arte a noi contemporanea, infatti si parla poco e in maniera svogliata, anche perché ha pagato il maggior prezzo all’eresia delle avanguardie storiche e al concettualismo degli anni sessanta/settanta, che l’hanno confinata nel greto asciutto dell’artigianato, con poca propensione ad accoglierla nel mutante mondo della virtualità e della dialettica tra luci e ombre, tanto che negli ultimi tempi la sua stessa nomenclatura è cambiata, dismettendo il nome originario di scultura, che connota una certa oggettualità definita, irreversibile, in pietra, bronzo, marmo, acciaio, terracotta, legno, per assumere quello di installazione, che connota una oggettualità incerta, indefinita, reversibile che può avere elementi di pietra, bronzo, marmo, acciaio, terracotta, legno. Insomma, alla sua forte complementarità architettonica, in grado di recitarne un ruolo rafforzativo e simbolico, la scultura s’è affiancata all’installazione, più collaterale alla scenografia, alla teatralità di una architettura cangiante e temporanea. Comunque, negli anni ottanta, la scultura è tornata con prepotenza esaltando una diversità di componenti formali e delle novità rispetto alla linea continuista del primo novecento, rappresentata da Arturo Martini, Francesco Messina, Giacomo Manzù, Fausto Melotti, prima maniera, così come a quella della discontinuità rappresentata da Umberto Boccioni, poi ripresa da Agenore Fabbri, Carmelo Cappello, Francesco Somajni, Marino Marini e nel mezzo tante figure come quelle di Arnaldo e Giò Pomodoro, Andrea e Pietro Cascella, Pietro Consagra, Augusto Perez, Mario Negri, Valeriano Trubbiani, Novello Finotti, Luciano Minguzzi.

Insomma, una vasta schiera di protagonisti, che nella loro diversità, hanno arricchito l’immaginario plastico di una grande varietà di forme figurali e astratte, non esenti da sperimentazioni di materiali e di combinazioni mimetiche, metamorfiche di difficile definizione sul crinale poetico ed interpretativo. Sia su questo vasto versante scultoreo che su quello successivo delle installazioni, che sono fondate sulla peculiarità dell’arte povera, da Michelangelo Pistoletto a Gilberto Zorio, a Giovanni Anselmo, a Mario Merz e su quello concettuale di Vettor Pisani, Luca Maria Patella, Maurizio Mochetti, Mario Ceroli, non sono mancati i momenti di contaminazione, come avviene di necessità in linguaggi fortemente condizionati da una società in trasformazione che avverte il disagio della scultura monumentale classica, ma non è ancora del tutto aperta ad accettare la trasgressione tout court, come si può vedere dall’accettazione limitatissima di Ben e di Giuseppe Chiari e dall’ambiguo trattamento di artisti come Cesar ed Ettore Colla. In questo senso è emblematica la figura, di Giuseppe Pirozzi, prestigioso rappresentante di una grande stagione della scultura italiana, del novecento, che ha visto una sua rigogliosa presenza sia nel campo figurativo che in quello astratto. In lui, tradizione ed innovazione si fondono fino ad ampliare l’orizzonte linguistico della scultura che, dopo l’esaurirsi del monumentalismo, ha aperto una stagione di architetturalità, adeguate alle aspettative di una modernità avanzata e di una post modernità sempre più invadente, che sta riposizionando architettura e urbanistica e con essa, il modo stesso dell’arte, non decorativa, non da tavolo, ma da interno, di stare in mezzo a noi.

Giuseppe Pirozzi  ha sempre concepito la scultura, ma sarebbe meglio dire, l’evento plastico, come interattivo, in una dialettica, in una scambievolezza, che gli ha permesso una grande adattabilità, in sincronia con i nuovi linguaggi della città, intesa come organismo dinamico, “vivente”, nella sua storicità e nella sua attualità.
In questo senso la scultura di Pirozzi si presenta come totalmente italiana, nel senso più alto, di continuità discontinua con la tradizione, che affonda le sue radici in una Napoli del Secondo Dopoguerra, ma che risale alla Roma imperiale, alla Firenze rinascimentale, alla Milano utopistica e suona come uno sprone e come un augurio, per svegliare tutti, soprattutto le menti intorpidite da luoghi comuni, da pregiudizi, un’arte che non è sincronia o succedanea della modernità, ma una elettività mentale, spirituale.

Dai primi disegni e sculture in troviamo tutto inserito in un grande contenitore indicibile ed ineffabile, delle misure della bellezza, della libertà espressionistica, dell’emozione, della gestualità, del nomadismo, della sperimentazione, della teatralità della scena, del segreto di un laboratorio sapienziale e facturale, del grande teatro del mondo e della sua immensa volta celeste, conturbante aura fantastica e cappa insostenibile. Una produzione artistica che si configura come un grande contenitore, informe, elastico, pronto ad assumere la forma di tutto quello che contiene dentro, cambiando di continuo il suo modo di apparire, la sua transeunte morfologia, fatta di tutte le imperfezioni e le titubanze che vengono a scontrarsi, quando tutto è stasi e sembra movimento, quando tutto è movimento e sembra stasi.

Nei bronzi di Pirozzi la bellezza è pura potenzialità, che si articola in molte stilistiche e  tipologie, che hanno in comune la forza debordante della ricerca, come dato della disseminazione, come effetto collaterale della smisuratezza, che richiede, di volta in volta, la concretezza dell’attualità, altrimenti resta confinata nel nulla.

Un artista che in modo silenzioso, quasi in privato, continua a coltivare l’ansia del passato e la preziosità delle sue cose antiche, con la sapienza tecnica delle nuove tecnologie e dei nuovi linguaggi.

Si determinano, così, tanti e tanti, percorsi personali, costruiti sul pontile della libertà e della ricerca, nell’area di una centralità culturale, spirituale, che deve presiedere alla creazione della singolarità, dello spessore, in cui l’artista misura se stesso, nell’invisibile dei segni, dei desideri, delle speranze, delle delusioni e del visibile, che vuole fuggire al nulla, apparire, essere.

Nelle sue “Formelle” la persistenza della memoria storica, selettiva e spesso contraddittoria, fa da strato, da  comune riferimento, che non è solo linguaggio tecnico, ma un modo di esprimersi, fatto di confluenze e di alchimie, di desideri e di paure, di sogni e di ossessioni, che l’artista porta con sé, come bagaglio reale e virtuale, che mette a disposizione del nuovo e del diverso, combinandosi con le valenze disseminanti e affabulanti, della dimensione babelica del mondo.

Il curatore Enrico Crispolti definisce le opere esposte “Marchingegni immaginativi, nei quali con grande disinvoltura e maestria plastica, Pirozzi propone come delle occasioni di divagazione inventiva, offerte con un garbo quasi di “capriccio” appunto plastico settecentesco. In cui la componente ludico immaginativa, attraverso un riscontro sincretico di possibili ricordi e suggestioni, si fa occasione di circostanziata, plausibile, provazione plastica. Occasioni d’immaginare allusivamente, in una gamma assai ampia di invenzioni, combinazioni, soluzioni, il cui senso credo risieda tutto nell’offerta, molto svariata, d’un possibile repertorio di sapienti provocazioni plastiche combinatoriamente appunto allusive”.

Il maestro Giuseppe Pirozzi è da sempre impegnato a portare alla luce le strutture nascoste, le segretezze della materia, in una duplicità tra sottosuolo del non visibile che diventa visibile, che acquista nuove sfumature e qualità materiche.
Una dimostrazione di giovinezza che non si fida del passare del tempo, dello scorrere degli anni, ma si incarica di elaborare i nuovi segni e i nuovi bisogni, affermando che in arte non c’è progresso ma trasformazione, non c’è l’ineluttabile, ma il tempo ondeggiante della fantasia e della poesia.

Pasquale Lettieri